DAVID NEBREDA, Arcobaleni di sangue ululano all’orizzonte.

Alessandro Arpa
5 min readMay 20, 2015

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“Mi sangre y mis excrementos, mis quemaduras, mi cuerpo y su dolor, un dolor necesario y alegre, son los únicos elementos para reconocer la mitad de mi patrimonio”

Disgustosa, macabra pornografia che abortisce ogni senso. Urla di disapprovante diniego in osservatori disattenti, approdati per caso su spiagge che d’instabilità si colmano e si saziano. Comprendere l’arte contemporanea è ardua fatica ma, spesso, il pubblico non ha la forza necessaria per riflettere, scavare sino alla radice per afferrarne il senso che, come fuoco, arde e alimenta l’opera. Il fruitore non sosta mai in un quella sfera magica che si crea tra il pensato e il detto. Si tratta di un aborto o è un capolavoro: risposte secche per menti anoressiche. Per scorgere briciole di artisticità nell’opera di Nebreda bisogna essere pronti, aver superato il limbo della perpetua sofferenza, essere adepti di una religione fondata sul dolore.

David Nebreda è nato a Madrid il 1952. All’età di 19 anni gli viene diagnosticato un disturbo schizofrenico. Per anni viene internato in diverse cliniche finché non decide di interrompere ogni trattamento medico per vivere da eremita in un appartamento a Madrid che funge anche da suo laboratorio. Nebreda comincia a fotografarsi. Le sue opere arrivano nelle mani del gallerista Renos Xippas che decide quindi di dedicargli una mostra nel suo locale di Parigi. Durante la mostra il sociologo Léo Scheer ne rimane affascinato e decide di divulgare le opere pubblicando due libri: “Autoportraits” (2000) e “Chapitre sur les petites amputations” (2004). La maggior parte delle fotografie sono state realizzate con una macchina di 35 mm con due obiettivi di 55 mm macro e un angolare di 28 mm. Per azionare lo scatto automatico ha utilizzato un cavo di sei metri. I negativi non sono manipolati in alcun modo e ciò rende le immagini pregne di vivida sofferenza.

«Je ne lis pas, je ne regarde pas la télévision, je n’écoute pas de musique, je n’ai pas d’ordinateur, pas de connexion à Internet. Je passe la plus grande partie de mon temps sur mon lit».

«Mon contact avec l’extérieur a détruit mon sens de l’ordre et a suscité des mots, inconnus pour moi jusqu’alors, tels que honte, douleur ou dégoût. Je voudrais insister: je découvre seulement maintenant la signification de mots comme dégoût, honte ou haine».

“Nebreda riesce a negarsi assolutamente e a plasmare questa auto-negazione come opera d’arte”. Jean Baudrillard

L’abnegazione come prerogativa per autoidentificarsi, questa pare essere l’idea fondante che vi è dietro l’opera del fotografo spagnolo. Nebreda è un dio schizofrenico che, squarciando il suo involucro scarno e disumano, materializza un nuovo corpo fatto di celluliode. Nel suo doppio fotografico si riconosce e segrega i pochi abbagli che la vita gli riserva. Egli stesso dichiara: “the only reference point I have for my own image is that which continues to be given to me by the photographic double”. Nebreda è una fenice instabile che, insoddisfatta di un’esistenza compiaciuta nell’eterna sofferenza, resuscita nella speranza di respirare un anelito di felicità. Sara Ugolini osserva che:

“se la fotografia è servita a Nebreda per riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità, per neutralizzare il perturbante del suo viso, le ferite che si infligge sembrano agire come interventi terapeutici, tentativi di ristabilire l’integrità dell’io attraverso un ‘involucro di sofferenza’, attraverso un dolore che procura al corpo il proprio connotato di oggetto reale e che agisce come mezzo di riavvicinamento, anche se brutale, alla realtà”.

Immagine 1.

Nebreda perde la facoltà di essere umano e si tramuta in corpo che gronda sangue (immagine 1)… ma non solo. L’annichilimento si manifesta anche nell’elogio inconscio e tragico delle “armi salvifiche” esposte come ricordo di un rituale di passaggio (immagine 2). Lame di misure diverse, sporche di sostanza vitale, pubblicizzate come panacea ai mali che lo devastano. David Houston Jones scrive: “The “materials used . . .” image, meanwhile, introduces a very important uncertainty into Autoportraits concerning the representability of the suffering body. While the vast majority of the images are devoted to the representation of that body, “materials used . . .” constitutes a space in which the body does not figure, and raises the possibility that the contemplation of the images of mutilation is not equivalent to, and does not enable access to, the experience of that mutilation”.

Immagine 2.

Autoportraits è la Bibbia di un macellaio. L’esperienza della mutilazione e la documentazione del dolore sono il primo passo verso un processo di defamiliarizzazione del proprio corpo.

Kate Ince tenta di accomunare l’opera di Nebreda con la produzione di Orlan ma si accorge che: “Nebreda’s work, however, differs significantly from that of Orlan in that bodily modification not only involves pain, but that that pain becomes the determining modality of spectatorship. While Orlan’s operations in “The Reincarnation of Saint Orlan”, for example, may involve physical pain, the experience of pain and its insistence in spectatorship are secondary to that of the physical transformation of the body, the presentation of the operated-upon body as a visual spectacle, and the further textual and visual interactions which Orlan’s project involves. This is not to say, of course, that pain is the object of Nebreda’s project, but that it significantly informs its reception”.

William McKinley Runyan parla di “psychobiography” come “the explicit use of formal or systematic psychology in biography”, un concetto applicabile anche in campo artistico e alla produzione di Nebreda dal momento che le sue fotografie contengono narrazioni criptate. Se si decodificassero i simboli celati nelle sue foto, risulterebbe più chiaro il rapporto morboso che si instaura tra l’uomo e la sua malattia e si percepirebbe un candido senso di instabilità che, adagio, naufraga sull’atollo della schizofenia.

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